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Paolo, il caffè e la vita intera
Questa è una storia vera.
È la storia di un uomo che mi parlava come un padre, nella sua casa di via Cesare Balbo, nel quartiere Vanchiglia.
Mi accoglieva con un caffè e un ricordo, e ogni volta finivo per ascoltare un pezzo della sua vita: le corse, gli amori, i rischi, le risate.
Oggi, prendendo in mano la tazzina che mi regalò, tutti quei racconti mi sono tornati in mente, e ho deciso di metterli insieme così come li ricordo, per non lasciarli svanire con lui.
Dietro una macchina del caffè, Paolo ha passato più anni che davanti a uno specchio.
Da bambino, per arrivare ai tasti, doveva salire su uno sgabello: la scuola non gli piaceva, e quando lo zio — che gli faceva da padre — scoprì che la marinava, gli diede una bella lezione e lo mandò a lavorare dietro al bancone.
Da allora, barista per castigo, viveur per natura.
Nel suo bar, in una Torino che profumava ancora di giornali e tabacco, passavano volti noti e sconosciuti.
C’era la Rai di fronte, e tra un cappuccino e un sorriso gli capitava di servire Corrado Mantoni, di scambiare battute con Ric e Gian, di osservare l’Avvocato Agnelli che passava poco lontano.
Ogni incontro diventava un racconto, ogni racconto una leggenda a metà vera.
Poi c’era stata la Liguria, una parentesi di sole e sale.
Aveva aperto un bar che andava a gonfie vele, fino a quando la vita — quella con la “V” maiuscola e gli occhi cattivi — aveva chiesto la sua parte.
Due uomini, un solo colpo sparato contro la vetrina come avvertimento, e la paura che gli si appiccica addosso come l’odore del caffè.
Vendette tutto e tornò a Torino, con la famiglia e un futuro nuovo che non sapeva spiegare.
Negli anni, i ricordi si fecero più grandi di lui.
Raccontava di serate al casinò di Saint-Vincent con calciatori della Juve e di partite a dadi in locali clandestini, dove il fumo di sigaretta si arrampicava fino al soffitto.
Poi, tra un racconto e l’altro, tornava a ridere ricordando certi guai finiti bene, come quella volta in cui la sorte gli giocò uno scherzo da commedia:
“C’è Paolino!¹”, gridò qualcuno per avvertire dell’arrivo della polizia.
Lui, che anche si chiamava Paolo, si voltò confuso — e restò solo, beccato nella bisca come un ingenuo d’altri tempi.
I poliziotti lo portarono via senza troppe spiegazioni.
Fu il direttore di un night, suo amico, a liberarlo, con una telefonata di quelle che allora valevano più di una sentenza.
Con le donne fu un equilibrista instancabile.
Amori, amanti, bugie a metà sorriso.
La moglie lo lasciò non perché lo scoprì, ma perché un’amante gelosa svelò tutto per dispetto.
Col tempo si riavvicinarono, come due pianeti che non riescono più a orbitare lontani ma non possono neppure toccarsi.
Dopo la morte di lei, Paolo si spense un poco.
Il barista che conosceva tutti smise di parlare troppo.
Nel suo sguardo rimase un tipo di malinconia che solo chi ha servito mille vite, senza mai smettere di cercare la propria, può capire.
Oggi, chi beve da una tazzina che fu sua dice che il caffè ha un sapore diverso.
Forse è solo suggestione.
O forse è che, da qualche parte, Paolo sorride ancora dietro un bancone invisibile, pronto a chiederti come lo vuoi:
corto, lungo o con un ricordo intenso?¹
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¹ “Paolino” era il soprannome del commissario del quartiere, usato come avviso in caso di controlli della polizia.